venerdì 21 dicembre 2012

Ihmarra


E non sapevi a che ora ci fosse il tramonto che avviene quando il sole si fa rosso e la luce piega le ombre più lunghe verso est.
Qualcosa galleggia sull'acqua d'un grande fiume, reso impetuoso dalle recenti piogge. Nell'aria umida e pesante il sentiero è ricoperto di foglie secche che stanno marcendo. Poco prima della cataratta c'è un piccolo attracco per le ultime barche furtive che provengono dalla foresta sul far della sera. Mentre la luce scappa dietro le colline si alza una silenziosa coltre di nebbia dalla sponda degli elfi. Il Sunc scorre beato e possente nel suo letto d'acqua, turbina giallo il fango, laggiù c'è il boato della cascata e io lo sento, lo chiamo. Sto seduto accosto a un ontano, aspetto, forse verranno. Loro mi chiamano il Signore della Briciole, perché sono quelle che io offro loro, poche briciole di luce invece della soffocante oscurità da cui provengono. Io sono il Guardiano della Porta, loro mi odiano ma non possono fare a meno di me. Anche solo uno scricchiolio di passi basta a destare la mia attenzione concentrata, volto la testa e lo vedo, ha stivali grossi per camminare nella foresta, gli orli del lungo mantello gocciolano d'acqua, sotto il cappuccio due occhi neri scintillano con le lacrime.
-Egli non volle saltare...- e stende il braccio indicando l'imbarcazione che volteggia sopra la corrente ormai prossima alla forra e, se possibile, la cascata romba ancora più cupa, quando resta solo la nebbia buia da vedere.
-Oh, un elfo femmina della Corte Oscura- dico con meraviglia, mi alzo e mi avvicino, lei richiude il mantello sul corpo sinuoso e abbassa il capo. Emana un lucore rossastro.
-Il tuo compagno preferisce i gorghi della corrente di Sunc alle tue tiepide carezze?
-Egli mi accompagnò alla sponda vostra, ma non intese mai lasciare la Corte Oscura, solo non poté tornare al popolo che altrimenti avrebbe svelato il mio approdo...-
-Sicura che non vi abbiano seguiti?-
-Non sentii alcuno sul nostro cammino.-
-Conosci le regole?-
-Che se avessi seguito il Signore delle Briciole non avrei più fatto ritorno alla Corte Oscura.-
-...e poi?-
-Che sarei un giorno morta.-
-Allora hai portato l'offerta?-
-La presi... vedesti?- Apre le lunghe dita affusolate e sul palmo della mano vedo un'ampollina con un liquido trasparente.
-Ecco... metti via. Dobbiamo spostarci di qua, siamo troppo in vista.-
Iniziamo a camminare lungo la riva in direzione della corrente, guidati dal fragore della cataratta che aumenta sempre più, il cielo arrossa tra i rami neri e spogli. Mi giro a guardare l'elfo, mi sembra affaticato il suo lucore rosso sta svanendo, si sorregge ai rami e ai tronchi per procedere.
-Come va?-
-Sentii la forza del mio popolo abbandonarmi ma ce la.... la faccio... oh! io parlo a.. adesso!-
-Benvenuta nel presente elfo donna... come ti chiami?-
-Io... io mi chiamo Ihmarra... questo è il mio presente?-
-E già... anche il mio e di tutti noi umani, infatti.-
-Anche il tuo?-
-Sì, stiamo vivendo adesso nello stesso presente.-
-Ouh!- Ihmarra spalanca gli occhi neri e profondi come il buio, che ha abbandonato per seguire la luce.
Allora mi volgo alle spalle e vedo sull'alto della riva rocciosa tre di loro che guardano in basso verso di noi, stanno fermi non hanno l'aria minacciosa ma solo intensa, piena di apprensione. Fissano Ihmarra, probabilmente la stanno chiamando. Lei si mette a correre tra cespugli e rami bassi come un animale spaventato, il mantello le si impiglia e scivola via lasciando libero il corpo fasciato di nero e rosso dai suoi abiti stretti.
-Ihmarra! aspetta, non di là!- La prendo per mano e la riconduco giù dalla riva verso il sentiero. I ciottoli bianchi della strada battuta riflettono la luce della luna nascosta tra gli alti rami della foresta. Altri passi ancora dietro di noi e odore di cavallo. Dall'ombra figure avanzano sulla strada ma noi continuiamo tranquilli. Dove il sentiero gira ecco sono in vista: un signore avvolto nella sua mantella cavalca al fianco di un troll delle Case di Legno, due mastini ci affrontano latrando.
-Lasciali stare Bruno!... sono amici- dice il signore a cavallo senza voltare lo sguardo.
-Se fossero nemici mi avrebbero già ucciso... con delle guardie del corpo come voi...- brontola tra sé.
-Forse sono solo due innamorati sorpresi dal buio lungo la riva del romantico Sunc, forse un elfo fuggiasco e la sua guida ah aha aha...-
Ihmarra ha uno scatto, ma io la guardo negli occhi e le faccio il segno di tacere.
-... dicono che esistano da sempre -riprese con la voce rauca- ma qualche volta muoiono, essi sono i mainati e finché stanno nelle terre dei loro confini possono vivere per molte ere. Sono divisi in due schiere. Gli Elfi della Luce, tante volte li scambi per riflessi o abbagli, vivono nel futuro, scompaiono al tramonto. E poi c'è la Corte Oscura, che anela alla luce, vive al passato remoto. Ecco... è al tramonto che puoi incontrarli, li riconosci perché emanano uno speciale lucore rossastro che si affievolisce quando si allontanano da casa...-
Il signore a cavallo cerca lo sguardo di Ihmarra e sorride pensoso.
-Noi si sale di quassù, adesso, gentile signore...- dico io in tono di ringraziamento.
-Fate la buona strada ragazzi, che non si confonda l'alba col tramonto... aha ahah.-
Si sale ancora un po', sulla collina non ci sono più alberi, la volta del cielo si spalanca da ogni lato, le acque del Sunc sono un lieve profumo nella brezza.
-Briciole... Tutto pieno di briciole di luce! - esclama Ihmarra stendendo le braccia in alto.
Inspira a pieni polmoni la meraviglia del cielo notturno, dove miliardi di stelle non possono che ridestare in lei l'illusione del sole.
Stringo nella mano l'ampolla che è la paga di una lunga giornata.
Nel buio della mia casa risuonano passi ormai lontani da lei. Distillo quelle poche gocce nelle mie palpebre tremanti e scompaio nelle tenebre.


mercoledì 17 ottobre 2012

Fatasmagorica e Manienuvole


Prima dell'alba in autunno Jon Arathorn era sulla riva del fiume sassoso a pescare e la luna di lassù gli faceva compagnia col suo riflesso. Le onde della corrente erano mille ciglia luminose, i ciottoli rotondi riflettevano abbagli o squame di pesce. Lui pensava e cantava di dentro come l'albero tra i rami col vento.
Allora tirò la lenza con uno strattone, solo un attimo s'illuse d'averla presa, una bella e grossa trota, poi la lenza si spezzò, sibilando dietro il suo orecchio. Jon perse l'equilibrio e finì di schiena nell'acqua gelida che corre.
Rotolava e tra sé rideva dell'acqua, che voleva quel mattino con lui scherzare, si ricordava da bambino quando papà giocava con lui e gli faceva il solletico, lo faceva ridere talmente tanto da mancargli il respiro e quasi soffocava e si spaventava. Cercava di rialzarsi ma il fondale viscido gli faceva lo sgambetto e l'ondina gelida gli premeva la testa sott'acqua, annaspava con le mani e le alghe ridevano tra mille spruzzi.
- Oh basta, adesso, non sarà mica che Jon diventerà famoso nella valle perché è annegato in mezzo metro d'acqua! - si maledì.
Cacciò con decisione la mano sotto la ghiaia e si ancorò a un grosso masso, poi piantò le ginocchia sul fondale e sollevò il capo fuori dall'acqua. Respirò con calma e a pieni polmoni, sorridendo ancora tra sé per quella strana situazione, si guardò attorno: che delle volte non ci fosse qualcuno ad assistere a quella buffa circostanza.
Quando puntò di nuovo lo sguardo davanti a sé: la vide, splendente, lo fissava con gli occhi di rame come le pentole di mamma sul focolare, stava protetta dietro un sasso, le vesti e una parte della chioma ondeggiavano nella corrente. Il corpo di lei emanava un calore intenso, dalle spalle, dalle guance si sollevava un vapore tenue. Stese una mano verso di lui, aveva la consistenza della luce. Attraverso quelle dita dentro Jon si scaricò un lampo di calore e un suono di mille voci in coro, visi a milioni e mondi felici. Sempre tenendola per mano Jon raggiunse la riva e si sedette sul ghiaino, non aveva freddo, distolse lo sguardo da lei e con la testa tra le ginocchia incominciò a piangere.
Le lacrime calde gli solcavano le guance e i denti gli sbattevano forte.
- Che faccio tremo? Ho preso uno spavento e un mucchio di freddo, che stupido! - Rideva, tra i singhiozzi di pianto, rideva.
Aveva paura di sollevare la testa, aveva paura di voltare la faccia e rivedere ancora quella creatura assurda che l'aveva fatto volare fuori dall'acqua, per questo si costringeva a stare lì sotto con la testa ficcata tra le ginocchia a singhiozzare. Poi un calore potente lo avvolse dalle spalle giù per la schiena, sentiva le forme del seno di lei premergli tra le scapole e un abbraccio scivolare tiepido e deciso attorno allo stomaco. Lo stringeva a sé come una madre selvaggia che avesse appena partorito suo figlio, lì tra i sassi del gelido greto.
Finalmente Jon si arrese, reclinò la testa sulla spalla della creatura stellare.
Un'alba possente bucava l'orizzonte e si impossessava del fiume, tra i fili biondi dei suoi capelli Jon osservò ogni altra ombra della vallata fuggire.
Il pianto era svanito Jon si raddrizzò sulla schiena e si voltò per guardare Fatasmagorica in viso, ma lei era in piedi a un metro e stendeva verso Jon il palmo della mano destra.
- Buongiorno Manienuvole, ho per te sette stelle nella mano e una casa là vicino - disse Fatasmagorica, accennando con lo sguardo dietro di sé, là dove nella vallata ancora resistevano le tenebre. Allora lei rovesciò il palmo della mano verso Jon che subito protese le dita d'istinto come per afferrare qualcosa di preziosissimo, perché non cadesse nella ghiaia. Sembravano gocce di mercurio e quelle gocce evaporarono creando soffici nuvole bianche.
- Un giorno, Manienuvole, verrai da me e io ti aprirò finalmente la porta. Indosserai una giacca gialla fluorescente d'emergenza e con quella voleremo via.- disse Fatasmagorica.
Fatasmagorica non c'era più.
- Ma..io.?! Manienuvole? - stese il braccio per cercarla e una nuvola gli uscì tra le dita.
- Cosa succede alle mie mani?! - rigirò il braccio e stese l'altro, così soffiò altre due nuvole sulla punta dei polpastrelli tra l'indice e il pollice.
- Aaaaaaahhhgg!!! - Un urlo di terrore ed esaltazione gli uscì dallo stomaco e l'eco corse su su per la valle.
E' là, verso il fondo del greto che in autunno nascono i nembi. Se si va di notte poco prima dell'alba si può vedere Manienuvole stendere le sue poderose braccia e creare cumuli densi e sontuosi o lo si può osservare intento a tessere tenui e malinconiche nebbie.

giovedì 27 settembre 2012

La maga e la gatta bianca


La maga e la gatta bianca




La luna è vecchia ed è anche molto bella. Tra un po' sparirà ma solo per rinascere una sera e noi, popolo della notte, la guarderemo da lontano. Noi popolo dei sogni l'ameremo e lei non ci lascerà dormire, noi alzeremo gli occhi su di lei e lei ci parlerà col silenzio delle nuvole che scorrono sul suo viso, come flotte di nere caravelle manovrate da marinai ciechi. Riempirà gli occhi di lacrime e le labbra di sorrisi, ci riempirà il cuore di un tormento di gioia e la testa dell'eco delle sue risa e nell'estasi del ricordo si scioglierà la stanchezza che ci mordeva le spalle, si apriranno le narici per una nuova aria ancora più leggera, né mai, né mai più toccheremo terra.
La luna è vecchia ed è anche molto bella. Quante ne sa di storie e da sempre le canta dall'alto delle mura al popolo dei senzasonno. Dietro la collina ci sono milioni di poeti che hanno copiato le sue canzoni e capitani pazzi che si perdono ai confini di tutte le terre per inseguirla e pittori delle carte imbrattate e scienziati col canocchiale a blaterare d'averla vista respirare. Ma i raggi della luna li riconosci, perchè sono gente intenta a vagare tra le ruote dei carri abbandonati, tra i ripostigli dall'uscio malchiuso dietro casa e, nel silenzio dei passi, tra i vicoli Gattabianca inseguiva una scia insanguinata.
La luna è vecchia e anche molto bella. Quante ne sa di storie ma questa è da ricordare, Gattabianca dal passo di foglia insegue una goccia porporina non di ratto, non di passero ma d'uomo sano. Dietro la collina dei poeti si canta un'antica melodia:
“Al primo abbraccio ho visto il tuo viso incantato
al secondo abbraccio un soffio poderoso mi ha sollevato
al terzo, finalmente, il cuore ti ho imprigionato”
Gattabianca da sopra il muro screpolato osserva con l'occhio cobalto la schiena di quell'uomo dissanguato. Egli conduce sé verso l'officina di Mastro Congliocchiali, è lui che con gran sapienza batte il ferro e forgia i caratteri, scolpisce nella mente il ricordo del presente. Ah è vero... qualche volta aggiusta i cuori con filo di ferro e pinze che fanno fori, ma solo se il cliente non è troppo sofferente...
La luna è vecchia e anche molto bella, i suoi raggi son gente dei sogni che gira di notte e fugge la luce dei giorni. Gattabianca stava ad osservare quell'uomo strano con una goccia di sangue che gli colava giù da una mano.
-Se continui così morirai.-
-Non m'importa niente.- Rispose quello alla gatta impertinente.
-Oh se è così che vuoi... io certo non ti distoglierò.-
-E allora cos'è che cerchi?- Chiese quello alla gatta che lo seguiva.
-Niente, a parte leccare il tuo sangue. Ma vorrei darti qualcosa in cambio.-
-Cosa mi puoi dare che già non ho perso?- Rispose lui brusco.
-Quello che posso darti dipende da quello che sei capace di prenderti...-
Si abbassò e dolcemente stese il palmo della mano verso di lei e lei si avvicinò con passo lento, protendendo il muso dall'alto al basso. Un istante dopo la stringeva tra le braccia. Il suo corpo fu pervaso da una luce gialloarancio e nell'abbaglio riconobbe il viso di una donna proteso verso di lui, ebbe paura che volesse aspirargli l'aria dai polmoni e si ritrasse lasciando cadere Gattabianca a terra. Lei in un attimo scomparve dietro dei sacchi in un portone.
La luna è vecchia e anche molto bella, quante ne sa di storie. In questa novella Gattabianca dal passo di foglia insegue nella notte un profumo d'uomo sano. Da lontano si ode un canto:
“Al primo abbraccio ho visto il tuo viso incantato
al secondo abbraccio un soffio poderoso mi ha sollevato
al terzo, finalmente, il cuore ti ho liberato”
Da sopra il muro screpolato Gattabianca osservava la viuzza dell'officina di Mastro Congliocchiali, lui è lì che a suon di martello sull'incudine spranga le porte del passato e inanella catene per tener ferma la nave della vita. Ah è vero... qualche volta aggiusta i cuori con borchie serrate a caldo, ma solo se il cliente è molto esigente...
La gente di notte scivola silenziosa lungo il muro e lo steccato, un Soldato di Dio che hanno licenziato, due garzoni dell'Ufficio delle Entrate, usciti un attimo a farsi un goccetto e mai più rientrati. Ma all'improvviso eccolo, finalmente lui, l'uomo dei pensieri seri. Toh! Non sanguinava più. Che disdetta per Gattabianca, questa non ci voleva. Ma appena discese lungo il vicolo e passò davanti alla porta della bottega se lo trovò di fronte che l'aspettava.
-Ou quasi mi piglia un colpo, ma non si fa mica così sai?-
-Che fai mi pedini?-
-Ma cheddici! Casomai sei tu quello...-
-Sì, sì... va be'.-
-Non sanguini più ho visto-
-Già già, Mastro Congliocchiali ha forse trovato il giusto buco.-
-Sono contenta per te-
E lui subito la prese in braccio e sentì una forza sollevarlo, come un vento che volesse trascinarlo su e rimase sorpreso e la guardò nel mare cobalto dei suoi occhi. Com'era profondo.

La luna è vecchia ed è bella. Tra un po' sparirà ma solo per rinascere una sera e noi, popolo della notte, le chiederemo com'è andata a finire. I raggi della luna sono gente intenta a vagare tra le storie abbandonate a metà, che ronzano e sbattono sulla vecchia lampada al soffitto di casa e i raggi della luna vogliono sapere di quella Gattabianca che inseguiva tra i vicoli uno di noi, uno del popolo dei sogni. Allora lei ci parlerà col silenzio delle nuvole che scorrono sul suo viso, ci riempirà gli occhi di lacrime e le labbra di sorrisi, raccontando del terzo abbraccio tra di loro, davanti alla bottega ormai chiusa di Mastro Congliocchiali.
La luna bella narrerà di Gattabianca divenuta una donna e del suo cuore libero dal tormento e ci canterà della gioia nell'eco delle risa e nei ricordi si scioglierà la loro vita, né mai, né mai più avranno toccato terra.

giovedì 9 agosto 2012

La tartaruga invisibile

Serenita dopo tanto tanto tempo si addormentò, scivolando tra le placide onde di un profumo non di questo mondo, una sensazione di appagamento la prese. La fata Xena, ruotando a spirale, dai capelli blu spargeva l'essenza. Serenita s'incamminò nel giardino luminoso e vivente. I tratti del suo viso erano d'oro e ambra, si riflettavano nello specchio d'acqua. Xena chinò il capo nascosto sotto l'onda color ametista e con l'indice sfiorò l'acqua che vibrò. Tremando le gocce di specchio sussurrarono: “Serenita trova la tartaruga invisibile.”
Un'emozione d'ombra sfiorò la fronte di Serenita e lei corse via, si sentì scoperta e impaurita. Alzò le ginocchia e volò nel soffio con il sole tra i capelli. Di Xena e di quell'acqua fredda rimase solo un ricordo.
Il tempo era una goccia di rugiada sospesa sull'orlo verde di una foglia. A perdita d'occhio il giardino si estendeva senza contorni nella luce. Era un mondo improntato alla felicità, inondato da un'aura positiva, una sensazione di completezza e pace. Xena era stata l'emozione di un istante, un profumo vibrante, una fragranza celata.

Il sole scomparso dietro l'orizzonte lasciò di sé solo il soffio delle corolle che si richiudevano e il sentore della frutta ancora calda dei suoi raggi.
Gli occhi di Serenita riflettevano il luccichio del bosco. Nel silenzio gonfio di respiri lontano si vedeva un grande castello dalle torri buie. Cammina e cammina, nella calma piena di bisbigli Serenita si diresse sotto le imponenti mura.
- Ehi tu! Che vieni a fare qua!
- Mi sono smarrita, Signore...
- Io sono il Padrone di Poison! Come ti chiami piccola ficcanaso?
- Serenita, signore, vengo dal giardino di Xena, e non so ritrovare la via di casa.
- Ah ah ah! Dite tutti così, però poi, una volta entrati nel mio castello, non volete più andarvene! Torna da dove sei venuta, prima che anche per te sia troppo tardi!
Così dicendo il signore di Poison spalancò il mantello violaceo mostrando il petto decorato da mille monocoli e occhialini dalle montature d'oro, scosse le braccia e si alzò a due metri da terra tra il tintinnio delle lenti e delle stanghette.
-Ah ah ah ah piccola sciocca! Vedrai!- tuonò con la voce imperiosa.
Serenita sgranò gli occhi più verdi dell'acqua del fiume e cercò di farsi ancor più piccola, vide i piedi staccarsi da terra, richiuse le mani sulla testa e strizzò le palpebre fino al dolore. Sentì il proprio corpo fluttuare nell'aria.
Un profumo insistente di vaniglia s'infiltrò nelle narici, un aroma audace e curioso, nulla che avesse quell'odore dolce poteva spavantarla, pensò, e lentamente decise di guardare ciò che stava accadendo attorno.
Si trovò a volo su pile, colonne, mucchi di libri. Ovunque girasse lo sguardo c'erano montagne, pareti di volumi di ogni forma e colore. Dappertutto tartarughe con occhialini o monocoli la guardavano incuriosite. Le lenti ingigantivano i loro occhi che, strano a dirsi, non erano quelli soliti delle testuggini ma con l'iride rotonda e colorata come quella degli umani e anche di più.
Dopo un paio di volteggi il Padrone di Poison liberò la presa e Serenita si sentì come precipitare, invece atterrò soffice sui piedi.
Nella penombra illuminata qua e là da lanterne di carta cinese si intuiva il lento movimento di qualche tartaruga, Serenita si avvicinò a una che passava di lì.
- Scusa, senti, mi poteresti dire che ci faccio qui?
La tartaruga la fissò con due occhi nocciola attraverso delle lenti rettangolari strette strette che sembravano costruite per leggere una sola riga alla volta, con aria meravigliata trasse un sospiro.
- Boh..., no so tu, ma io sono qui per leggere il mio libro.. che altro sennò...
- Ah.. tutte queste tartarughe son qua per leggere un libro?
- Già... che immaginavi? Che volessero mangiarlo?... Ah ah aha ah... Comunque non “un libro” ma “il proprio libro”....
- Oh.. vuoi dire che ognuno ha il suo personale libro?
- Eh, certo, come potrebbe essere diversamente... io per esempio ho Osvaldo Soriano “Triste, solitario y final” purtroppo sono quasi alla fine... sono alle ultime pagine, voglio gustarmele...
Serenita rimase un attimo in ascolto, il bisbiglio che aveva udito nel bosco non era altro che il suono di migliaia di pagine che venivano girate in ogni momento tra le mura di quell'enorme castello di libri, pensare che ognuna di quelle occhialute avesse un libro tutto per sé, quasi quasi le smosse un senso d'invidia.
- Hei, tu! Amico! - cercò di fermare una testuggine che aveva il carapace screziato di giallo e due occhietti marroni e furbi.
- Posso chiederti... vorrei trovare il mio libro ma non so come fare...
- Ah aha ahah... potresti incominciare guardando sotto di te, per esempio!
Serenita seguì il consiglio e infatti si accorse di avere le zampette appoggiate su un libro non tanto grosso con la copertina bianca Lewis Karroll, “Alice's adventure in Wonderland”.
Zampette!!??
Improvvisamente si sentì sprofondare all'indietro e la testolina le sparì nel carapace, tentò uno scatto di fuga verso l'alto, ma l'unico effetto che ottenne fu un fremito della coda, un'appendice verdastra e rugosa. Il cuore le batteva forte per lo spavento, ma allora anche lei era una tartaruga! Com'era stato possibile? Tutto era successo così in fretta. Pianse e poi le passò. I battiti del suo cuore rimbombavano nel guscio scuro, tutto era successo in un lampo e senza spiegazioni.
Si rassegnò sopra il suo libro, che altro poteva fare?
Decise di leggerlo. Allora si sistemò gli occhialetti sul naso, toh! erano a forma di cuore con la montatura rosa... Con un certo sforzo riuscì ad aprire il libro, ecco... pagina ventidue... e di nuovo quel dolce profumo di vaniglia.
Tentò di sfogliare indietro verso l'inizio, ma niente, tutti gli sforzi inutili. Tentò allora di sfogliare le pagine avanti, ma niente da fare. Pagina ventidue era lì e quella bisognava leggere, il messaggio era chiaro, l'aveva capito.
Le righe della pagina dormono e sognano gli occhi di chi li legge: gli occhi di Serenita sono profondi come un bosco scuro e “... cammina cammina tra le sillabe inciampando e saltando nell'aria o scivola nel fosso e si spiaccica e appiccica giù...” Saltando e volando tra le sillabe Serenita giunge a uno strano cancello:
Serenita devi uscire dal carapace e tornare a casa tua!!”. Questi stranissimi semi crescevano in quel giardino. Come poteva adesso lei lasciare il suo guscio? Si chiese. Io non sono dentro il carapace, io sono il mio carapace! E lui è me!?

La tartaruga non dormiva da anni e sognava tra le righe del suo libro. Si sollevò gli occhiali e si strofinò le ciglia: era arrivata a pagina mille di mille e tutti gli zeri indicavano solo quante volte le era sembrato di dover iniziare da capo, ma invece la storia si raccontava, eccome!
"Ma se ti girasti, Serenita, e scorgesti un muro, fu inutile voltare il capo per tornare nel giardino, quel muro c'è, lo vedesti. Anzi più te ne tieni distante e più esso diventa duro e alto e se lo cali nel pozzo dell'oblio, assorbirà tutta l'acqua e morirai per la sete di verità. E se mandi i nani sapienti a sgretolarlo riusciranno solo a sparpagliarne i pezzi in giro, nascondendoli ovunque, e ad ogni passo rischierai di inciampare. Non serve stare sotto il muro a piagnucolare, non serve gridare aiuto. Devi solo capire che tu, Serenita, sei il muro e se vuoi puoi anche diventare altro. Se lo vuoi veramente con tutta te stessa uscirai dal carapace e tronerai da dove sei venuta."
Serenita dopo tanto, tanto, tempo si addormentò. L'anormalità e la normalità sono separate da una ( ' ) lacrima di profumo.

lunedì 9 luglio 2012

Fratello Corvo

Là nella Valle Chiusa la luce del crepuscolo faceva appena intravedere le capanne del villaggio tra la neve e il fumo dei fuochi quasi spenti. Prima che l'alba sorgesse il cacciatore si preparò ad uscire, prese l'arco e la faretra, sistemò la lama nella cintura, mise nella tasca delle noci e della carne secca. La madre lo guardava muta, avvolse una pelle di daino sulle spalle del figlio. Lui chinò il capo, lei le baciò la fronte.
Dunque s'incamminò lungo il sentiero che portava alla Foresta Grande. Come ogni volta, da quando ne aveva memoria, presso la quercia spaccata incontrò Fratello Corvo appollaiato su un ramo basso. Scuotendo le ali gracchiò – oh cacciatore dove ti portano i piedi oggi?-
Ruscello Silenzioso sorrideva tra sé, continuava a camminare e recitava la sua abituale preghiera -Fratello Corvo non attraversare la mia strada, ala d'ombra non saprai dove il cacciatore vada, ma guida il suo passo in salvo oltre la notte.-
Ma Fratello Corvo al solito gracchiava altre parole – oh cacciatore dimmi almeno come ti chiami, sussurrerò il tuo nome agli dei benevoli! -
- No – scuoteva il capo e sorrideva, poi continuava la sua preghiera - Fratello Corvo non conoscere il nome mio, non chiamare il cacciatore o spirito del buio, affinchè possa ancora vedere il sole.
Il vento sollevava folate di neve sul sentiero, ad ogni passo il fiato quasi si gelava in una nuvola davanti alla sua bocca. Avanzava nel bianco tra le gigantesche querce nere che ficcavano i rami stecchiti nel blu intenso del giorno ormai fatto. Niente, nessuna preda in vista. Dopo una riva scese verso il ruscello e si mise al riparo dal vento vicino ad alcune rocce. Staccò un pezzo di carne secca e la gettò davanti a sé qualche metro, poi iniziò lentamente a masticare il resto, pensava ed aspettava. Forse avevano già abbattuto tutti i daini e i cervi rimasti bloccati dalla neve di qua del passo, forse i lupi avevano finito le ultime prede in quelle notti, però l'inverno ormai era alla fine, anche se il freddo era ancora crudo.
In quel momento Fratello Corvo atterrò sulla neve, con passi goffi si avvicinò al pezzo di carne secca. Ruscello Silenzioso tese l'arco – oggi porterò qualcosa da mangiare ai bambini – pensò. L'occhio buio del corvo lo fissò ma il cacciatore rimise la freccia nella faretra e si riavviò sul sentiero. Fratello Corvo, volando ancora verso est, andò a riprendere la notte.

La verde cupola della foresta di querce faceva appena intravedere le capanne del villaggio tra il fumo dei fuochi quasi spenti. Prima che l'alba sorgesse il cacciatore era già pronto, prese l'arco e la faretra, sistemò la lama nella cintura. La madre lo guardava muta, una ciocca di capelli bianchi le scivolò sulle spalle. Lui si chinò e le baciò la fronte.
Dunque s'incamminò lungo il sentiero che portava nella Foresta Grande. Presso la quercia spaccata incontrò Fratello Corvo appollaiato su un ramo basso. Scuotendo le ali gracchiò – oh cacciatore dove ti portano i piedi oggi?-
Ruscello Silenzioso sorrideva tra sé, continuava a camminare e recitava la preghiera -Fratello Corvo non attraversare la mia strada, ala d'ombra non saprai dove il cacciatore vada, ma guida il suo passo in salvo oltre la notte.-
E Fratello Corvo gracchiava – oh cacciatore dimmi almeno come ti chiami, sussurrerò il tuo nome agli dei benevoli! -
- No – scuoteva il capo e sorrideva, poi continuava la sua preghiera - Fratello Corvo non conoscere il nome mio, non chiamare il cacciatore o spirito del buio, affinchè possa ancora vedere il sole.
La grande calura veniva scossa dai tuoni lontani. Una pioggia battente gonfiava i polmoni di aria fresca. Il cuore di Ruscello Silenzioso si faceva leggero come il vento che scrollava i rami carichi di gocce. Fratello Corvo gracchiò e Ruscello Silenzioso scoccò una freccia laggiù, tra le foglie larghe di un giovane acero, dove si mostravano gli occhi di Ubu il cervo. Un profondo bramito e l'animale balzò fuori dal fitto a testa basso contro Ruscello Silenzioso, che fece appena in tempo a buttarsi di lato fuori dal sentiero. Il cacciatore ruzzolò verso una sporgenza di roccia e da lì volò giù, sbattendo sul fianco destro. Il cuore gli scuoteva il petto, ma non aveva paura, provò a muoversi. Urlò nella foresta.
In quel momento Fratello Corvo atterrò sulle foglie secche, con alcuni passi goffi si avvicinò alla gamba ferita che sanguinava. Ruscello Silenzioso sussurrò – oggi porterò qualcosa alla capanna dei miei avi – pensò. L'occhio buio del corvo lo fissò. Fratello Corvo gracchiò – oh cacciatore dimmi almeno come ti chiami, sussurrerò il tuo nome agli dei! -
- Sono Ruscello Silenzioso, o spirito del buio, fa che possa ancora vedere il sole.- Il corvo si alzò in volo sul sentiero verso est.
La madre uscì dalla capanna perchè sentiva i bambini schiamazzare, tiravano pietre sul tetto per scacciare un corvo che vi si posava sopra. Lei lo riconobbe subito, quello era la guida di suo figlio Ruscello Silenzioso. Lanciò un acuto grido e si accasciò a terra, subito circondata dalla gente del villaggio. Le sue sorelle le parlavano e cercavano di tenerla per le braccia, ma le gambe non la reggevano – Sorella, sorella, che è accaduto! Diccelo, non fare così sorella...-
- Ruscello Silenzioso... il suo corvo... è tornato solo!!-
Anche gli anziani si erano fatti attorno alla capanna e osservavano il corvo sul tetto, poi si riunirono da una parte a confabulare.
Fu chiamato l'Uomo Medicina che portò una colomba. Al pennuto fu tagliato il capo e una striscia di sangue fu disposta sul terreno fin dentro la capanna dell'uomo sacro. Egli si sedette vicino alle braci sbriciolandoci sopra delle foglie di alloro, dopo molte preghiere il corvo si presentò sull'uscio tutto impettito ed entrò dirigendosi verso la vittima. Il fumo inondava l'aria della capanna e dal becco del corvo si udirono distintamente le parole – Ruscello Silenzioso ha una gamba insanguinata, giace sotto il Gran Salto...-
Ancora il corvo non volava in alto con la colomba tra gli artigli che già due guerrieri erano sul sentiero verso la Foresta Grande. Trovarono Ruscello Silenzioso dove il corvo aveva detto, il corpo del cacciatore aveva perso quasi tutto il sangue e giaceva nel sonno. Costruirono una slitta con grossi rami e una pelle di daino che si erano portati. In breve furono di nuovo al villaggio, il ragazzo fu salvo e tra le braccia di sua madre ancora una volta.

La foresta di querce ondeggiava nel vento freddo e nuvole di foglie gialle e rosse scorrevano sopra il villaggio e nei vicoli tra le capanne. L'alba era già sorta il cacciatore non aveva fretta, osservò la lama del suo coltello come se fosse la prima volta. La madre lo guardava muta, scorse gli occhi del figlio riflessi dal metallo lucido. Lui le baciò la guancia.
La leggenda dice: d'autunno il cacciatore non ha fretta, prima caccia l'orsa e poi l'uomo.
Dunque s'incamminò lungo il sentiero che portava nella Foresta Grande. Presso la quercia spaccata incontrò Fratello Corvo appollaiato su un ramo basso, scuoteva le ali gracchiò – ... Ruscello Silenzioso! Dove ti portano i piedi oggi?-
Ruscello Silenzioso sorrideva tra sé, continuava a camminare e recitava la preghiera -Fratello Corvo non attraversare la mia strada, ala d'ombra non saprai dove il cacciatore vada, ma guida il suo passo in salvo oltre la notte.-
E Fratello Corvo gracchiava – Ruscello Silenzioso, sussurrerò il tuo nome agli dei benigni! -
- Non oggi, amico mio, non oggi – scuoteva il capo e sorrideva Ruscello Silenzioso, poi continuava la sua preghiera - o spirito del buio, fa che io possa ancora vedere il sole.
Osservò alcune macchie scure sulle foglie, si chinò e le toccò. Tra le dita il sangue da poco rappreso odorava di cane.
Indugiò lo sguardo tra i rami bassi di un cespuglio e notò le zampe irrigidite di uno dei cani del villaggio. Il cacciatore si alzò di scatto con gli occhi e le narici spalancate, subì un violento colpo, l'asta della freccia ancora vibrava dopo averlo trafitto. Crollò all'indietro e si abbattè sulla schiena, gli occhi erano rivolti alle grige nubi che correvano spinte dal vento. Sul suo viso si abbassò la nera e ala di Fratello Corvo che con il becco strappò gli occhi di Ruscello Silenzioso. Prima che i nemici potessero raggiungerlo volò in alto con ampi cerchi sparendo in uno squarcio azzurro del cielo e nessuno lo rivide mai più.

venerdì 13 aprile 2012

Kurabu e il senso della vita

Là nella Valle proprio dove il Fiume dei Profumi si chiude in una cataratta e diventa un impetuoso ruscello viveva una piccola colonia di gamberi. Fin dall'alba tra i sassi viscidi si aggrappavano con una chela e con l'altra afferravano il cibo di passaggio, il tempo che non dedicavano in questa attività lo sprecavano a lamentarsi l'un l'altro della gelida e impetuosa acqua, della scarsità del cibo e del destino ingiusto che era capitato loro.
Un giorno Kurabu, il più sciocco o il più saggio di tutti pensò: ”cosa mi costringe a rimanere qui? Tutto il giorno attaccato alle rocce a tentare di prendere del cibo?” e così dicendo si staccò e si lasciò trascinar via dalla corrente. Molti alla colonia lo videro volar sopra le loro teste e commentarono “ohh!! Che pazzo quel Kurabu.. che brutta fine farà!”.
Turbinando làssù verso la superfice Kurabu era totalmente in balia della corrente e in breve tempo aveva percorso molte leghe. Volteggiò dunque sopra un'altra colonia e la notizia del suo passaggio si sparse in un lampo. Molti dei gamberi di laggiù lo chiamavano “hei tu! abbassati che ti afferriamo!”, altri “è lui! è lui! il gambero della profezia! è colui che ci libererà dalla schiavitù della corrente!” e detto questo senza esitazione abbandonarono le loro prese e furono anch'essi trascinati via. Quando l'acqua gorgogliando li portava più vicini a Kurabu lo chiamavano “maestro! maestro! dove siamo diretti?” oppure “maestro! sei la nostra guida verso la salvezza! santo sia il tuo nome!”. Kurabu non sapeva cosa rispondere, per lo più rimaneva in silenzio oppure, quando era costretto, pronuciava qualche vaga frase senza particolari significati, tipo: “l'acqua scorre forte oggi... domani forse pioverà... state lontani dai sassi...”. Altre colonie li avvistavano e all'arrivo di quello sciame volteggiante il numero dei seguaci aumentava sempre più. Stavano tutti attorno a Kurabu che di fronte a quella moltitudine si sentiva sempre più impaurito.
Incontrarono una stretta ansa e molti di loro finirono in bocca ai pesci o frantumati sulle rocce ma la maggiranza, sostenendosi reciprocamente con le chele, riuscì a scivolar via senza grandi danni “grazie maestro che ci hai salvati! grazie di averci guidati sulla via della salvezza!”.
Finalmente le sponde si aprirono in una vasta foce sabbiosa, la corrente diminuì fino a far cadere la moltitudine di gamberi sul soffice fondale. Kurabu felice e sfinito per il lungo viaggio chiuse gli occhi per sempre. La notizia della sua morte si sparse in un lampo tutti, per rendergli omaggio, posarono sopra il suo corpo una conchiglia e così in breve restò sepolto sotto una piramide di conchiglie. La luce obliqua del tramonto colpì la piramide. Un luccichio brillò nell'occhio attento di un fenicottero, che virò e in pochi secondi planò su quella parte della laguna, seguito da altri tre compagni: “accipicchia! guardate qua che ben di Dio fratelli!” e spalancò le possenti ali per attirare l'attenzione degli altri. Molti gamberi finirono nei loro becchi prima che la maggioranza riuscisse a scomparire sotto la sabbia.
Là nella Laguna proprio dove il Fiume dei Profumi sfocia placido viveva una piccola colonia di gamberi. Fin dall'alba frugavano tra la sabbia dorata con le chele alla ricerca di cibo, il tempo che non passavano in questa attività lo sprecavano a lamentarsi l'un l'altro della gelida e torbida acqua, della scarsità del cibo e della crudeltà dei fenicotteri.
Un giorno Jsabu, il più sciocco o il più saggio di tutti pensò:”cosa mi costringe a rimanere qui? Tutto il giorno sotto al sabbia alla ricerca del cibo, aspettando di essere mangiato dal vorace fenicottero?” e così dicendo si diresse strisciando dove la corrente rendeva l'acqua più limpida. Procedere così era troppo faticoso, tanto che Jsabu capì che era più agevole camminare all'indietro. Molti alla colonia lo videro andarsene in quello strano modo verso l'imboccatura del fiume e commentarono “ohh!! Che pazzo quel Jsabu.. che brutta fine farà!”.
Strisciando all'indietro controcorrente Jsabu dopo qualche tempo incontrò un'altra colonia e la notizia del suo passaggio si sparse in un lampo. Molti dei gamberi di laggiù lo chiamavano “hei tu! Ma come cammini!? trattieniti ai sassi con una chela!”, altri “è lui! è lui! il gambero della profezia! è colui che ci libererà dalla schiavitù della corrente!” e detto questo senza esitazione abbandonarono le loro prese e iniziarono a strisciare sul fondo cercando di imitare al meglio la sua strana camminata. Quando il gorgoglio dell'acqua un poco si placava andavano più vicini a Jsabu e lo chiamavano: “maestro! maestro! dove siamo diretti?” oppure “maestro! ma le zampe è meglio muoverle tutte assieme o prima quelle dietro e poi quelle davanti?! santo sia il tuo nome!”. Jsabu non sapeva cosa rispondere, rimaneva sempre in silenzio oppure, quando era costretto, fulminava l'interlocutore con uno sguardo e questo si ritirava umilmente. Presso le altre colonie il lento avvicinarsi di quella strampalata colonna in marcia produceva sempre lo stesso risultato: aumentava il numero dei seguaci. Tutti seguivano Jsabu che ormai non riusciva più a vedere la fine della fila che lo seguiva davanti a sé. Lui prima di tutti non sapeva dove andava, visto che il Creatore non gli aveva certo messo gli occhi sul di dietro! Infatti andarono a cozzare su una stretta ansa molti di loro finirono in bocca ai pesci o incastrati tra le rocce ma la maggiranza, trascinandosi reciprocamente con le chele, riuscì a passare “grazie maestro che ci hai salvati! grazie di averci guidati sulla via della salvezza!”.
Finalmente le sponde si chiusero in una cataratta vorticosa, la corrente rendeva impossibile procedere e difficile anche solo restare fermi tenedosi con una chela a qualche appiglio di fortuna. Jsabu sfinito per le mille peripezie chiuse gli occhi felice e non si svegliò più. La notizia della sua morte si sparse in un lampo. Tutti, per impedire che il suo corpo fosse trascinato via dalla corrente, posarono sopra Jsabu un sassolino e così in breve restò sepolto sotto un cumulo di ciottoli color arcobaleno.

giovedì 5 gennaio 2012

Serenita

Serenita tiene e gira un anello tra le dita. L'ha trovato passando una mano sull'erba fresca del mattino mentre stava distesa a scrutare le nuvole. Le nuvole corrono, corrono incontro al vento. Soffia forte Austro e fa caldo, lei con il dito segue il bordo dell'anello dolcemente. L'oro brilla quando si scalda, in cima c'è un diamante rosso dalla punta acuminata.
-Spalanca gli occhi verdi Serenita, chiedi, chiedi ed avrai. Sono il tuo anello dei desideri.-

Serenita si svegliò di soprassalto nel bosco era già notte (quanto aveva dormito non lo sapeva) le vennero incontro dieci fantasmi neri a cavallo urlando come ammazzati. Si accucciò dietro il tronco di una quercia e pregò l'anello di farli sparire. Una luce inondò le fronde e i cespugli. Dietro la spada fiammeggiante vide per la prima volta il viso del principe Imoon. Lei si fece incontro mostrandogli l'anello, lui la fece salire sul suo destriero bianco. Al mattino arrivarono alla Reggia delle Sette Ginestre e vissero.
Serenita teneva l'anello tra le dita. Lo trovò sull'erba fresca un mattino di primavera. Le nuvole erano immense torri bianche. Imoon correva incontro al nemico. Serenita soffocava d'afa e profumo di fiori appassiti, lei con il dito seguì il bordo dell'anello dolcemente. L'oro si scaldò, sulla cima brillò il diamante rosso dalla punta acuminata.
-Spalanca gli occhi verdi Serenita, chiedi, chiedi ed avrai. Sono il tuo anello dei desideri.-

Serenita si svegliò di soprassalto nel bosco era già notte (quanto aveva dormito non lo sapeva) le fiamme della Reggia delle Sette Ginestre illuminavano l'oscurità. Corse nel fitto strappando le vesti tra i rovi, uno stallone bruno si alzò a candela davanti a lei. Lei si fece incontro mostrando l'anello, il guerriero le strappò l'anello dalle mani e la fece salire sul suo stallone bruno. Al mattino arrivarono al Villaggio della Vallata e vissero.
Serenita osservava l'anello tra le dita del suo Padrone. Quello che aveva trovato sull'erba fresca un mattino di primavera. Il cielo nebbioso avvolgeva le capanne in un umido abbraccio. La sua dolce figlia Moon dagli occhi di cielo cantava melodie antiche. Serenita odorava il profumo dei biondi capelli lavati. Il Padrone con il dito seguì il bordo dell'anello dolcemente. L'oro si scaldò, sulla cima brillò il diamante rosso dalla punta acuminata.
-Spalanca gli occhi verdi Serenita, chiedi, chiedi ed avrai. Sono il tuo anello dei desideri.-

Serenita si svegliò di soprassalto nella capanna era già notte (quanto aveva dormito non lo sapeva) nel buio le braci del focolare illuminarono il diamante al dito del suo Padrone. Con l'ascia si riprese ciò che fu suo, con l'ascia si portò via colei che adesso era sua: la principessa Moon. Fuggirono, lo stallone bruno aveva un uragano nel cuore. Al mattino ritornarono alla Reggia delle Sette Ginestre e piansero.
Serenita lavava l'anello. Quello che aveva trovato sull'erba fresca un mattino di primavera. La neve dovunque alla finestra cancellava i confini delle cose e dei rumori. Il cielo ghiacciava di Tramontana. Lei con il dito seguì il bordo dell'anello dolcemente. L'oro brillò, in cima il diamante rosso lasciò che Serenita toccasse ancora la sua punta acuminata.
-Spalanca gli occhi verdi Serenita, chiedi, chiedi ed avrai. Sono il tuo anello dei desideri.-

Serenita aprì gli occhi tra la neve, era già notte (quanto aveva dormito non lo sapeva), la luce della luna allungava le ombre spettrali degli alberi spogli. Un abbaglio inondò il volto del principe Imoon. Lei si fece incontro mostrandogli l'anello, lui la fece salire ancora sul suo destriero bianco, avevano vissuto.