giovedì 6 ottobre 2011

Riccio Tempesta

"La volpe ne sa tante, il riccio una importante."
Archiloco
Vederlo arrivare così al tramonto, incerto giù per la discesa, sembrava quasi dovesse inciampare e rotolare da un momento all'altro. Certo nessuno avrebbe creduto al nome che portava, Riccio Tempesta.
La sua fama lo aveva preceduto e Volpe, preoccupato per ogni novità che poteva coinvolgerlo, si era appostato al limite del bosco dove la discesa erbosa conduce verso il Fiume Freddo. Aspettava già da un po' rimuginando su varie questioni che lo preoccupavano, prima di tutto cosa mangiare.
No, non certo la carne di riccio, filacciosa e maleodorante, non era poi così disperato.
Lasciò che Riccio Tempesta arrivasse vicino a lui, poi con un balzo uscì dall'ombra e gli sbarrò la strada con fare arrogante.
- Hei là, dove credi di andare, irsuto! -
Riccio Tempesta sollevò appena il capo, approfittò della pausa per darsi una grattatina alla pancia, in fondo adesso si sentiva più al sicuro, avendo davanti agli occhi il proprietario di quell'odore che aveva nelle narici già da un po', da quando aveva iniziato a scendere verso il fiume.
- Bella accoglienza signor Volpe –
- Che signor e signore! Non siamo più amici adesso?! - Esclamò Volpe, che già nel cervellino aveva mezza ideuzza.
- E dove vai di bello? - Continuò Volpe con fare più gentile.
- Io? Io scendo dai Prati, seguo il mio naso...- disse Riccio Tempesta.
- E, dimmi, non desideri qualcosa da mettere sotto i denti? -
- Sì... seguo il mio naso, lui non sbaglia mai... io lo seguo e prima o poi tac! Trovo qualcosa! -
- Adesso hai trovato me – disse Volpe - vorresti mangiarmi forse? Ah aha ah! -
Riccio Tempesta sollevò appena il capo, ne approfittò per darsi una grattatina alla testa, contemplava il muso sorridente di Volpe e davvero non riusciva a metterlo nel menù, però era certo che se il suo naso l'aveva portato lì, questo significava cibo.
Nel frattempo Volpe aveva dato libero sfogo all'immaginazione, serviva un piano, dove Riccio Tempesta era l'aiutante, se il suo nome valeva veramente qualcosa, doveva dimostrarlo.
Il più ardito dei piani piovve nella testa di Volpe mentre Riccio Tempesta pensieroso sollevò il naso al vento. Restarono là a guardare le foglie secche vorticare sull'acqua del fiume. Quando Volpe s'accorse che la luna calava dietro i rami, con uno sbadiglio si avviò lungo il sentiero che seguendo l'ansa arrivava al ponte di legno e da lì si dirigeva al pollaio.
- Che fai?! - disse Riccio Tempesta - se guadiamo arriveremo molto prima. -
- Scherzi?! La mia pelliccia non ha certo bisogno di lavaggi fuori stagione! -
- Be' io nuoterò, è più prudente, spesso sul ponte ci sono gli uomini. -
- Prudenza e diguno sempre fanno coppia lo sai? -
- Ci vediamo laggiù! - gridò Riccio Tempesta, che già nuotava veloce nella corrente tra una sponda e l'altra.
Al trotto leggero Volpe attraversava il ponticello di legno, l'ultimo raggio di luna colpì la sua pupilla e si riflesse negli occhi dell'uomo che stava alla finestra e guardava verso il ponte quella notte, non riuscendo a dormire.
Non appena Volpe arrivò presso il recinto del pollaio vi trovò già appostato Riccio Tempesta che con aria interrogativa lo guardava di sotto in su.
- Allora che si fa? -
- Vedi il recinto? E' a prova di volpe, ma non di riccio, tu ce la fai a passare tra le fessure. -
- Vado dentro e che faccio? -
- Niente, rubi le uova, le spingi fino al di qua del recinto. -
- Sì e tu che fai? -
- A parte che l'idea è stata mia, comunque io controllo che non arrivi nessuno... -
Al quinto uovo che si mangiavano ovviamente arrivò Cane abbaiando come un pazzo.
- Dai! Dai! Corri, non ti appallottolare se no non passi più tra le fessure! - disse Volpe e pensò “come avevo previsto ah ah ah”.
Quando Riccio Tempesta fu nei pressi del recinto non potè resistere alla paura e si trasformò in una palla di aculei. Cane lo azzannò, ma ne ricavò soltanto dolorosi buchi sul palato e un saporaccio in bocca che non avrebbe mai più dimenticato. Con un guaito e uno scrollone Cane scagliò quella palla di aculei nel cielo scuro della notte. Come una meteora Riccio Tempesta piombò con un tonfo nell'acqua del fiume.
Intanto Volpe, divorate le uova, si avviò sulla strada del ritorno, ma c'era un uomo e una trappola che aspettavano sopra il ponticello.
- Quando arriva la tempesta devi già essere al riparo. - disse Riccio Tempesta a Volpe, ma quello ormai non poteva più sentirlo.
Vederlo partire così all'alba, incerto su per la salita, sembrava quasi dovesse inciampare e rotolare da un momento all'altro. Certo nessuno avrebbe creduto al nome che portava, Riccio Tempesta.

giovedì 22 settembre 2011

Evelina e l'Impossibile


C'era una volta Evelina, principessa e regina, viveva in una casa piccina piccina, con tappeti alle finestre e un portone sbarrato, dal quale potevano tutti entrare, ma sol pochi uscire.
Dai suoi lunghi capelli castani piovevano lacrime profumate di gelsomino, sul suo seno i draghi finalmente potevano dormire, ma soltanto il martedì.
Lei era sempre nervosa e soffiava incrociando gli occhi, la filastrocca dei balocchi sempre cantava:
- Cento per cento tutti i bambini al centro, centro in centro sei balocchi in un sol mucchio, e la cenere nel secchio!!-
Evelina, principessa e regina, era sola dalla sera alla mattina, ma al tramonto il principe Impossibile arrivava col suo nero destriero e la rapiva oltre l'Orizzonte.
Dovete dunque sapere che allora il Regno delle Ombre entrò in guerra contro la Federazione delle Lanterne e anche il principe Impossibile partì alla battaglia.
La notte si udivano rombi lontani e lampi di luce rischiaravano le facce delle case, la radio gracchiava:
- gzgz 1233 grzz 85943439 grzzz 123 -
- Lasciate stare il mio principe Impossibile! - piangeva Evelina verso la radio. Che muta, mai aveva rivolto una parola alla principessa e regina.
Allora il Generale della Gran Battaglia decise di sganciare la Bomba Amica e urlò alle truppe delle Lanterne:
- Cento per cento tutti i bambini al centro, centro in centro sei balocchi in un sol mucchio, e la cenere nel secchio!!-
Tutti i soldati correvano appiattiti come topi che fuggano da una casa in fiamme, il fumo saliva dal campo mescolato con anime e puzza di cherosene.
- Coordinate 45432!! Coordinate 45432!! Tenente Impossibile!! - gridava un caporale pazzo.
I sei balocchi giacevano inerti le divise macchiate di rosso vermiglio, come garofani pensati e mai sbocciati.
Mesto mesto il destriero del principe Impossibile s'avvicinò al secchio e annusò la cenere, poi andò verso il mucchio e annusò il principe Impossibile, leccò la sua mano e in cavallico nitrì:
- Andiiiamo a casa su, su, non tiii seiii fatto niiente bambiino miiio, andiiiiamo a casa. -
La mano del principe si mosse, prima con un piccolo scatto, poi afferrò la briglia. Il destriero si inginocchiò per farlo montare in sella, e dolcemente si avviò verso il ritorno.
Cosa c'è di là dell'Orizzonte nessuno lo sa, pochi lo dovrebbero sapere e uno solo l'ha saputo. Egli in un'alba bianca ha preso forma dalla bruma e avanzava, spaventando i corvi che mai avevano scorto qualcuno provenire da quella parte. Con passo malcerto portava per la briglia il suo fido destriero cercando la strada per la casa di Evelina, principessa e regina. Due contadini ignoranti lo scorsero di lontano e si fecero il segno della croce piangendo.
- Chiama Titta, il piccolino che corre con i talloni che gli toccano le orecchie. -
- Chiamalo, chiamalo il piccolo, che vada da madama Evelina a dirle di preparare una pentola d'acqua calda per lavare le offese, ago e filo per ricucire le ferite, il principe Impossibile sta tornando! -
Titta correva, correva e le lepri dovevano scansarsi e le rondini cabrare in alto a farsi belle solo dei loro volteggi. Correva Titta e sarebbe arrivato in tempo se il Generale della Gran Battaglia non avesse comperato giusto da tre giorni un Messensher calibro 45, che risucchiava l'aria e lasciava i piedi penzolare nel vuoto. L'ordigno, a volerlo provare, ci mancava appena una buona ragione e a vederlo correre, così tanto e senza motivo, il piccolo Titta certo gliene offriva una veloce veloce.
- Brawwwaammm -disse l'ordigno.
- Cento per cento tutti i bambini al centro, centro in centro sei balocchi in un sol mucchio, e la cenere nel secchio!!- disse il Generale della Gran Battaglia.
E ciao. Titta penzola là nel vuoto.
- Ah... metti la cenere nel secchio! - ordinò il generale al suo attendente.
Dopo due notti di pianto Evelina pensava che avrebbe pianto ancora una notte e poi si sarebbe data pace. Al risveglio sentì bussare al portone da cui ormai nessuno poteva entrare né uscire.
- Chi sarà mai? - pensò e chiese alla radio se avesse per caso saputo qualcosa ma quella, al solito, nulla rispose.
- Chi è che bussa?-
- Sono io. - rispose una voce.
- Io chi? Scusi. -
- Io, il tuo principe...
- Impossibile! - Rispose Evelina principessa e regina – Impossibile! -
- Sono io, aprimi!!- esclamò incredulo il principe Impossibile.
- Sì è impossibile, impossibile, impossibile...
Sbarrò la porta con mille chiavistelli d'oro, e ci mise a guardia cento per cento bambini, che fa mille se non li conto male, o forse sicuramente di più. Sbarrò la porta e mise a guardia contro l'impossibile due draghi rossi, ma solo il martedì.
Allora il principe Impossibile pianse tutte le lacrime che aveva, pianse per quattro giorni e notti e pianse per lui anche il destriero, finché non venne fuori uno dei bambini, da una piccola porticina laterale, a sgridarli che bagnavano lo zerbino e loro, i bambini, erano stufi di dover asciugare e pulire anche la pupu del cavallo, che poi non era neanche poca.
Il principe Impossibile, ormai tutti lo sapevano, girava sempre più al largo e sempre più triste, sperso cavalcò oltre l'Orizzonte e lasciò andare il suo destriero nella brughiera. Giunto che fu in riva al mare scrutò la luna sorgere dalle onde.
- Mi sento tanto solo – le disse.
- Non ti senti solo – gli rispose lei – ti senti abbandonato.
Mi manca il profumo dei suoi capelli... - e pianse.
Allora con un gesto compassionevole la luna sciolse il suoi lunghi capelli argentei sopra le onde del mare.
- Vieni, cammina sopra i miei capelli e sali quassù. -
- La strada è lunga – pensò il principe Impossibile – ma cos'ho da perdere? -
Un passo dopo l'altro continuava a salire, vedeva il mare blu della notte sotto di sé, sentiva il vento sul viso farsi sempre più gelido. Si strinse nel suo mantello, ripensò al suo destriero, l'avrebbe voluto con sé in quel momento, ma tornare indietro non si poteva.
Evelina, principessa e regina, sul tetto della sua casa piccina piccina scrutava il cielo con il canocchiale, alla ricerca degli alianti del Generale della Gran Battaglia. Per caso puntò sulla luna e dalla lente comparve il suo principe Impossibile.
- Impossibile! Impossibile! - gridò Evelina.
La luna che stringeva Impossibile tra le sue candide braccia, si girò di spalle e da quel giorno nessuno vide più il principe Impossibile.

domenica 18 settembre 2011

pantera vs seppia 1°round

     
    Una notte di luna, tanto tanto tempo fa, quando cielo e terra ancora si toccavano e le pantere erano solo maculate.
    Una pantera andando a caccia aveva allargato un po' troppo il giro, o forse per puro caso, era giunta al limite della giungla sulla riva del mare, sul quale si specchiava appunto una gigantesca luna.
    Pantera, sentendo quell'odore strano al quale non era abituato, decise di dirigersi verso la spiaggia, con lenti passi annusando diffidente la sabbia e le alghe secche. Saltò l'onda che arrivava sulla battigia, con un balzo sicuro e, senza sapere perchè, si mise a correre imprimendo chiare impronte sulla riva che subito il mare cancellava. Poi d'improvviso si fermò ad ascoltare.
    Udiva un richiamo, un lamento, o forse solo uno scherzo del vento sulle dune. Ma la voce si fece sempre più distinta, proveniva dall'acqua.
    Balzò indietro ringhiando, vedeva ondeggiare nell'acqua buia una creatura lunare. - Il mio corpo è bianco e molle, i miei lunghi tentacoli sono trascinati dalle onde, sono esausta perchè ho traversato l'Oceano e scampato mille pericoli, prendimi tra le tue zampe e mangiami. - - Non ho fame adesso - rispose pantera – sono capitato qua per caso ed ora voglio starmene un momento in pace ad ascoltare. -
    Allora la seppia smosse la sabbia e scomparve dicendo:
    - Io conosco le storie che il mare nasconde sotto la sabbia dei fondali. -
    - Di che storie parli? -
    - Di quelle che nessuno vorrebbe sentire... -
    - Del tipo? - aggiuse pantera sospettoso.
    - Tipo... c'era una volta pantera che aveva paura del buio, per quello preferiva stare arrampicato sugli alberi, per quello usciva dalla jungla di notte attirato dalla luce della luna...
    - Frottole! - esclamò il felino arrabbiato – che ne sa un mollusco di come si sentono le pantere! - e si chiuse in un indignato silenzio.
    - Dai non ti arrabbiare – tornò a dire la seppia – la stranezza è nel destino che ci ha fatto incontrare! Approfittiamo del caso per farci del bene. -
    - Che intendi dire? - chiese pantera ancora più sospettoso.
    - Forse passeranno cinquecento, mille anni prima che una pantera incontri di nuovo una seppia in riva al mare. -
    - E allora? -
    - Se ascolti un mio sogno io potrò fare una magia per te... -
    - Come? -
    - Sì, vedi, noi seppie passiamo molto tempo sotto la sabbia a sognare. Troppi sogni ci fanno dimenticare chi siamo e dove dobbiamo andare. Per questo mi hai trovato così vicino alla riva... Questi sogni possiamo dimenticarli solo se li raccontiamo a qualcuno. -
    - Ah... ho capito – disse pantera pensieroso.
    Pantera si sentiva affascinato dalla gentilezza della seppia e addolcito dal suono della risacca sulla sabbia.
    - Va be'- disse con curiosità appena celata - ti ascolterò.
    Passarono lunghi minuti la brezza soffiava, l'onda lambiva le zampe di pantera intento ad ascoltare le parole salire dall'acqua come schiuma profumata, l'eco dalla foresta era solo una vaga sensazione lontana. Il sogno narrato dalla seppia lo catturava, lo rapiva in altri sogni, ricordi e immagini, fantasie dolci, muti misteri senza uscita.
    - Quante emozoni, quanta vita si vive sognando - disse pantera incredulo.
    - La vita è l'unico vero sogno – rispose la seppia con una punta di rimpianto nella voce – ma ora dimmi: qual è il tuo desiderio? Io lo esaudirò.
    La pantera si alzò nervoso e cominciò a giare su se stesso.
    - Devo essere proprio impazzito – borbottò come se fosse solo – credo di parlare con una seppia e, quel che è peggio, credo che mi possa esaudire un desiderio.
    Poi rivolto verso l'acqua quasi ruggendo disse:
    - Vorrei non aver più paura del buio!! Ecco l'ho detto alla seppia! -
    - Sei sicuro che vuoi proprio questo? - disse l'acqua ribollendo.
    - Sì, certo, sì – rispose pantera.
    - Va be' – disse la seppia con degnazione – sappi allora che l'unico modo per non aver paura del buio e avelo detro di sé – aggiunse con fare misterioso.
    - E dunque? - la pantera diventava impaziente.
    - Ora immergiti nell'acqua completamente... vieni... vieni. -
    Il felino lentamente scese nell'acqua, quando quella gli arrivò al collo con un colpetto della testa s'immerse verso il fondale da cui sorgeva una nuvola densa d'inchiostro nero. Una voce calma rassicurò pantera:
    - Non avere paura, lasciati andare. Entra nella nuvola, immergiti completamente, lasciati compenetrare dall'inchiostro del buio.-
    Così fu. Pantera recuperò la riva che già i primi raggi dell'alba rischiaravano l'orizzonte. Si scrollò l'acqua di dosso e si diresse a balzi verso la jungla.
    - Aspetta! - Lo chiamò dal mare la seppia.
    Ma pantera non sentiva altro che uno strano presentimento e la voglia di correre. Si tuffò tra i cespugli e sparì nel verde. Presso uno stagno si specchiò riflesso nell'acqua, era nero, più nero di una nera notte senza luna. Alzò la testa e vide con orrore i raggi violetti del sole brillare tra le fronde.
    - Aspetta! – ripeteva ormai inutilmente la seppia – Chi non teme il buio avrà paura della luce! -

martedì 16 agosto 2011

PILLOLE DI SAGGEZZA



Gira e gira tanto dopo restano quelle due sfere là in mezzo alla strada, è già l'ora di ritornare a casa.
Le sfere hanno un'iride verde e dentro screziature fangose. E' una voragine melmosa che attrae, bordo di pozzo pieno di silenzio d'olio.
Mi ritrovo disteso sulla sponda del letto con i piedi dentro un limite d'alghe scure, lì ad attendere.
Aspetto l'onda nera, una risacca d'oblio che tarda e tradisce chi ha fretta. Finalmente la marea allaga un entroterra di occasioni, di coscienze, di memorie a centinaia, fino al protrarsi estremo dei minuti. Ma sì porta via, trascina via, così è abbastanza.

Lo sguardo lo teneva basso, la visuale sfiorava di poco come il sibilo di una lama. Dunque la visuale sfiorava il profilo del naso e si posava all'attaccatura del pollice della mano destra, oppure sulla punta dell'indice sinistro, perché era mancino. Comunque alla mattina questo importava poco visto che le cose gli venivano male lo stesso, come se non fosse stato né mancino né destrorso.
Inseguiva inebetito le sue dita, dietro di loro di volta in volta si agitavano una moka, un biscotto, un tasto del telecomando, il manico della tazza, i capelli di sua figlia, il tasto del telecomando, un pezzo di mela. Anche quella mattina aveva inseguito le sue falangi dalla cucina al bagno, sotto l'indice sinistro si era ritrovato una pagina della Recherche, poi come al solito un foglio di carta igenica, il rubinetto del bidet, altri tre fogli di carta igenica. Nell'incavo della mano era colato un ovulo di sapone liquido. Sul vetro del tavolo del soggiorno trovò le due Optralidon blu da ingoiare, come un bel paio di scarpe nuove se le sentiva proprio comode, l'acqua nel bicchiere sembrava proprio un calzascarpe in corno. La prospettiva gli si allargò di colpo in panoramica, la punta del naso si trasformò in un punto gravitazionale immaginario, alla fine delle braccia vedeva tutte e dieci le dita, agilissime tiepide e asciutte, le unghie erano forti e addirittura un po' brillanti. Inspirò profondamente, il torace si trasformò in quello di un uomo robusto di circa quarant'anni, un fisico da lottatore si sarebbe detto, il mento si contrasse in un sorriso.
Cia..., io vado…>
Bacibaci!!>
Quando uscì giù in strada istintivamente abbassò la testa e guardò in alto prima nella porzione di cielo visibile da sotto il suo portone, poi nel parcheggio scrutò ben bene tutta la volta celeste con la sua vista a trecentosessanta gradi. Niente, niente di niente. Salì in auto e per un attimo riuscì solo a visualizzare il palmo della mano stretto al volante, se guardava il parabrezza vedeva sé stesso riflesso nel parabrezza - cioè non è un sogno questo - pensò - nel sogno non si vede se stessi riflessi nel parabrezza. E' così - si confermò. Intanto la macchina andava, non appena la visuale dal parabrezza migliorò, si accorse di essere in leggero ritardo sulla tabella di marcia, accelerò. Poteva sentire la linea di mezzaria lampeggiargli sotto il muso della macchina, la sentiva danzargli di sotto, a destra e a sinistra, dopo le frenate gli si posava tranquilla a fianco, in attesa di nuove partenze.
Aveva la mente chiara come un quarzo.

sabato 6 agosto 2011

RAPPORTO #08062011


E poi un'altra sera.
Aumento il passo ma i piedi sono malfermi,
pesanti di pietra che non riesco ad alzare,
con un cuore così, che sbatte in gola e nel petto,
dove voglio andare ancora?
Grida soffocate come impulsi d'energia
si schiantano sulle vetrate di una palestra.
Al tavolino lei mi fissa con due feritoie da caimano.
L'impatto sembra rompere ogni volta il vetro di quegli occhi,
stringo il pugno sinistro contro il mento.
L'aria mi esce dal naso con uno sfiato umido.
Il sibilo fulmineo del grande rettile.
Il gelo già parte dalla mia spalla
dritto in avanti, dritto in faccia.
Lei vacilla indietro con gli occhi smarriti
che sporgono in avanti,
le parole sono tornate ad essere mani,
le punte rosse delle lingue tacciono.
Orsacchiotto dal naso rotto
tra le labbra ti fuoriesce brillante saliva.
Sono parole per piacere,
per un uomo lontano
che rimane sotto la luce di un lampione,
cammina su e giù, parla al telefono, forse sono io.
Le nuvole se ne sono finalmente andate via,
lasciano vedere nuove stelle,
quante non ne hai già viste,
o che comunque non ricordi.
Gemere dentro quel pezzo di plastica
è tensione elettrica emotiva,
di là c'è lei con tutte quelle squame negli occhi,
scatti selvaggi,
pensieri che non stanno più dentro l'osso del cranio.

mercoledì 3 agosto 2011

LE TROMBE DEL GIUDIZIO PERSONALE



C'era uno che davanti a me attraversava la strada senza guardare. Attraversavo la strada e guardavo la sua schiena larga, di quelle che sanno lavorare troppo. La morte non lo voleva, stridevano le frenate attorno a noi come cornacchie in picchiata.
La testa era un elmo, le spalle brillavano sulle nostre possenti corazze, fratello, sfrecciavano pneumatici come attacchi di violino e i clacson erano le trombe del giudizio personale, così eravamo felici.

SE C'E' NON LO VEDI



Se non ci sei muoio, muoio qua e là, al lavoro, in palestra, per strada, nella musica che ascolto, nel colore dei capelli di una collega, nelle sue risa il mio stridore.

Ruggine che ricopri questa ringhiera prega per me.

martedì 2 agosto 2011

LUNA








Adesso è quando sale un silenzio innaturale,
di neve che cade, di nebbia dentro dove tutto scompare.
Lontana è la città che dorme.
Un camion insegue le luci gialle della statale
mormora quello che sto pensando.
Sopra il profilo dei condomini ci sono i tuoi occhi giganteschi.
Come lune arrivate da un pianeta lontano,
segrete e minacciose stanno là.


Niente si muove, né il vento mi consola,
sussurrando all'orecchio, a dire "ti passerà",
ora volto lo sguardo e riempio il petto
d'aria umida che sa di fiume.
Forse sono due astronavi incastrate lassù,
c'è stato un errore del computer.
Avaria nel sistema dei comandi spazio temporali,
c'è una delegazione di pace che vuole sbarcare,
il Presidente degli Stati Uniti non sa cosa fare.

domenica 31 luglio 2011

DI NOTTE

Sono suono.
C'è un tramonto nel mio cuore
ora apre le sue ali nere.
C'è un pensiero che ho dentro
a testa in giù.
La notte spingo lo sguardo nel buio
ascolto gli echi del mio mondo
da questi suoni lo riconosco.
Le vibrazioni sono di falene
incubi sperduti.
I miei fratelli mi hanno portato fin qui.
Ora sono solo.

venerdì 29 luglio 2011

TORNA



Accoccolata nuda sul letto, Cinthia attirava a sè il lenzuolo lilla, con la mano lo portava alla guancia, la morbidezza e il profumo per coprirsi. Sonnolenta le ginocchia alla fronte, i capelli dello stesso colore delle sue labbra, i seni ed il viso le davano l'aria di una bambina dopo una lunga corsa. " Bì!-glietti...". Sarebbe stato meglio uno schiaffo, l'odore nauseabondo dello scompartimento dove il sole filtra e scalda il linoleum marcio del pavimento, i rivestimenti finta pelle dei sedili, le stampe gialle di Pisa antica, lo specchio FS con inciso 8°SKA'83 massicci, Cesco, merda.

Tiro fuori il biglietto senza nemmeno aprire gli occhi ma ormai so che quel sogno è perso, la pelle incollata al guanciale grigio marrone della tendina con righe rosse e continenti gialli di bava secca, ho sognato una bella dormiente, che sapevo essere Cinzia, anche se nella realtà Cinzia era una moretta con folti capelli neri, lo sguardo indifeso ed i fianchi da figli.
Sto precipitando nella terra dei miei avi sul diretto 573821 Roma Bari, risucchiato in un imbuto spazio-temporale. Dal finestrino distese di uliveti con il rosso della terra sotto, infiniti perimetri di muretti a secco, atavici filamenti che intonano il sacro rosario alla fatica contadina, improvvisa appare una masseria, così come doveva apparire dal mare al saraceno. E' la faccia solcata di terra di nonno Pinuccio, una scorza strabruciata di sole, scrigno secco e polveroso.

La danza caraibica del treno batte un ritmo di mille ruote e binari d'acciaio, scossoni e sobbalzi, ritorno ossessivo di pensieri che credevo d'aver seminato lontano.
"E prendi una vacanza!". Come nei film avrei voluto dirgli.
"Va bene, vado a morirti lontano..." Ma poi mi sono subito ricordato che lo aveva detto come nei film, ho pensato che era pur sempre un modo per alleggerire quell'autentico casino, e se c'era da fare una figura da impotenti quella era mia.

"Doichlande? American? Hotel Astra bargain, bargain!" Nell'atrio della stazione di Bari assediato da venditori ambulanti ed affittacamere cerco di non fare la figura dello straniero americà, rispondo cumpà, uagliò, qualcuno si ritrae sospettoso, altri ignari si avvicinano.

"Senti cumpà aggia asscì a Lecce, 'na machina cumpà, pija 'sti euro  cumpà". Quello più sveglio mi aiuta a portare la valigia.
All'esterno della stazione una fucilata di sole quasi mi acceca, l'uomo che ho accanto è frenetico e accaldato ma ogni volta che lo guardo mi sorride. "Se emigrato... torni?"

"Si, si, so emigrà" Lui fischia con le dita ad una Punto parcheggiata sul marciapiede, dopo poco è da noi.

"Non è taxi" mi spiegano, "quest' amico mio va a Lecce, gli dai trenta euro ed è ok."

"Fammo venticinque, che cinque già te li ho dati cumpà!".

La strada è una lingua nera che non capisco più bene, la macchina è un forno ed io il pollo, questo probabilmente sta pensando il mio taxista abusivo sta lì accanto, ha il labbro superiore imperlato di sudore e occhiali da sole neri ed insulsi come due televisori spenti.. Innesta le marce con rabbia, un coltello nel cuore del motore, ogni tanto si volta verso di me con un lieve sorriso di soddisfazione, per dirmi eh...vedi noi italiani? le sappiamo guidare le macchine, le sappiamo far godere le femmine. Poi come se nulla fosse si accende una diana, da fastidio e per gentilezza apre il finestrino del tutto, alle narici legni d'ulivo bruciati, fichi d'india maturi, con un sibilo una motocicletta ci sfiora "curnuta 'e mammata!!"
Il mare.
E mi guarda "...che piange 'stu fessa?!"

Lunghe file di case basse e bianche di calce scorrevano ogni tanto di lato a noi, interrompendo la monotonia degli uliveti e dei muretti grondanti di fichi d'india, sassi gialli ed erba bruciata dal sole.